Abbado alla Scala con la Filarmonica

Filarmonica della Scala

Roberto Abbado, direttore

Teatro alla Scala
domenica, 2 ottobre 2011, ore 20

Luciano Berio (1925-2003)
Requies (1983-84)
per orchestra da camera

Helmut Lachenmann (1935)
Schreiben (2003-05)
Musica per orchestra

Robert Schumann (1810-1856)
Sinfonia n.4 in re min. op. 120
(1841-51)
Ziemlich langsam – Lebhaft
Romanze: Ziemlich langsam
Scherzo: Lebhaft
Langsam – Lebhaft

In collaborazione con RAI-RadioTre
(Trasmissione in diretta)

Luciano Berio, Requies per orchestra da camera
(1983-84)

La prima esecuzione di Requies fu diretta a Losanna da Armin Jordan con l’Orchestre de Chambre
de Lausanne il 26 marzo 1984. Su questo pezzo
scrive l’autore: “Requies: un’orchestra da camera
suona una melodia. Piuttosto: descrive una melodia, ma solo come un’ombra può descrivere un
oggetto e un’eco può descrivere un suono. La melodia si svolge incessante ma discontinua attraverso ritorni e digressioni, attorno a un centro mobile, lontano, forse indecifrabile. Scritto nel 1984,
Requies è dedicato alla memoria di Cathy Berberian”.
L’orchestra suona sempre pianissimo, e le lievi
variazioni dinamiche devono dipendere soltanto
dalla densità dei raddoppi strumentali, come prescrive Berio in partitura. In questa pagina breve e
bellissima una lontananza mutevole e sfuggente
caratterizza l’evocazione di una melodia che affiora, si perde, ritorna, senza mai assumere una univoca linearità, quasi fosse collocata in uno specchio deformante e modulata su diverse scale di tempo: ne fanno parte processi di echi e la melodia sembra confondersi con l’aura che la circonda
(infatti non la possiamo distinguere dai fatti armonici, timbrici ecc. che si accumulano ed evolvono intorno a lei). Il processo di crescita e svolgimento della melodia “descritta” sembra quindi
sfuggente, si colloca in un contesto cangiante e sospeso, che poco prima della fine conosce momenti
di maggior concitazione. Il pezzo inizia e si conclude sulla nota-centro do diesis. Nel magma sonoro Berio ha anche nascosto, non percepibili
all’ascolto, citazioni di cose che Cathy Berberian cantava.

Helmut Lachenmann, Schreiben (2003)

Composto nel 2003, eseguito per la prima volta a
Tokyo dalla Tokyo Symphony Orchestra diretta
da Kazuyoshi Akiyama, poi riveduto nel 2004,
Schreiben ha un titolo che implica quasi una dichiarazione di poetica con le molte associazioni di
idee che suggerisce. Nel titolo Schreiben, che significa “scrivere”, si può leggere il tormento di una scrittura definita in modo minuzioso e accuratissimo per una musica che pone radicalmente in crisi
le convenzioni e le abitudini di ascolto, con procedimenti nati da analitica riflessione. La ricerca sul
suono e su particolari modalità esecutive, o meglio l’energia che scaturisce da diversi modi di
produzione del suono, è l’aspetto della musica di
Lachenmann che colpisce con immediatezza, ci
pone di fronte a esiti sonori “inauditi”, mette in
discussione ogni idea convenzionale di “bel suono”, con intransigente purezza che sembra sostenuta da una visionaria tensione all’assoluto. Lachenmann chiede all’interprete di produrre il suono in modo di volta in volta reinventato e
all’ascoltatore di percepire la fatica di questa ricerca, di cogliere l’energia che viene così liberata
e di avvertirne l’aura, l’implicita forza di poetica
suggestione.
Lo scrivere per Lachenmann è indispensabile,
non può essere sostituito dalle possibilità di lavoro sul suono che offrono i mezzi elettronici. Ma la
sua ricerca non ha nulla di astratto e comporta
sempre una tensione espressiva coinvolgente: non
sorprende allora che egli dichiari di essere stato
colpito dal fatto che la prima sillaba del verbo
“schreiben” corrisponda al sostantivo “Schrei”,
grido, e che anche in francese “cri” (grido) sia una
sillaba inclusa nel verbo écrire. A questo proposito con ragione Max Nyffeler ha parlato di “acrobazia semantica” (confrontabile forse, si potrebbe
aggiungere, con alcune di quelle cui ci ha abituato
Wagner), un’acrobazia che non toglie nulla al
senso della rivendicazione espressiva del compositore.
Il titolo Schreiben si lega anche a precisi momenti
della partitura, nei quali Lachenmann chiede ai
musicisti dell’orchestra gesti e suoni legati allo
scrivere: “scrivere” sugli strumenti, dentro la cordiera del pianoforte, su tavolette di legno, sugli
angoli dei leggii. Ancora Nyffeler nota affinità tra
passi di Schreiben e dell’unica opera teatrale di
Lachenmann (un capolavoro purtroppo mai rappresentato in Italia), Das Mädchen mit den Schwefelhölzern (“La ragazza con i fiammiferi”, cioè La
piccola fiammiferaia), nel cui testo appaiono anche le parole di Gudrun Ensslin “Scrivete sulla
nostra pelle” (nella fantasia di Lachenmann la
terrorista della RAF morta in circostanze mai
chiarite nel carcere di Stammheim nel 1977 è una
“variante deformata della piccola fiammiferaia”,
perché “non ha soltanto giocato con i fiammiferi;
ma ha scelto la violenza sfigurando la propria umanità”). Non si devono cercare precise implicazioni semantiche nelle affinità notate da Nyffeler,
né possiamo tentare di tradurre in parole ciò che
gli esecutori “scrivono”.
Determinante è in Schreiben l’energia prodotta
dalla ricerca sul suono di Lachenmann,
un’energia che sembra comunicarsi direttamente
all’estrema varietà della materia sonora (17 pagine di spiegazioni di comportamenti non convenzionali accompagnano la partitura), ai pianissimi
come alla violenza furiosa, con forza visionaria,
con magiche sospensioni: trasfigurata poesia e furibonda tensione convivono in Schreiben senza il
minimo cedimento. Non si può riassumere in termini schematici il profilo generale del pezzo, dove
si potranno notare nella zona centrale gli indugi
sui momenti in cui il direttore non deve dirigere,
lasciando a ognuno dei musicisti la piena responsabilità di suonare la sua parte senza tener conto
dell’insieme. Segue, a circa tre quarti del pezzo,
un fortissimo con una melodia degli archi
all’unisono, che dà l’avvio a una zona di grande
violenza drammatica, seguita nelle pagine conclusive dallo spegnersi su sonorità di strofinamento,
sfregamento, “scrittura”.

Robert Schumann, Sinfonia n. 4 in re minore
op. 120 (1841-51)

Premessa e stimolo per l’intensa produzione orchestrale del 1841 fu probabilmente per Schumann la scoperta nel 1839 della Sinfonia in do
maggiore (1825-28) di Schubert, cui dedicò un celebre articolo. Si deve forse anche tener conto del
superamento dei conflitti estenuanti con Friedrich
Wieck: Schumann giunse finalmente al matrimonio con Clara nel 1840. Del 1841 è anche la Sinfonia in re minore, composta subito dopo la Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore (gennaio-febbraio
1841), la “Ouverture, Scherzo e Finale” (12 aprile – 8 maggio) e, in maggio, la Fantasia per pianoforte e orchestra che sarebbe divenuta il primo
tempo del Concerto op. 54. Nel diario di Clara, in
data 31 maggio 1841, si legge che Schumann aveva il giorno prima iniziato “un’altra sinfonia, che
deve essere costituita da un unico tempo, ma deve
contenere l’Adagio e il Finale”. Era la Sinfonia in
re minore, fin dall’inizio concepita come un unico
blocco che riuniva senza interruzione i tempi di
una sinfonia tradizionale. Lo schizzo fu finito di
getto entro il 7 giugno; la strumentazione fu portata a termine tra il 14 giugno e il 9 settembre. La
prima esecuzione (insieme a quella di “Ouverture, Scherzo e Finale”) fu diretta da Ferdinand David al Gewandhaus di Lipsia il 6 dicembre 1841, in
una serata in cui la maggiore attenzione fu attirata dalla presenza di Clara Schumann e Franz Liszt
insieme: la Sinfonia in re minore, a quanto pare
eseguita mediocremente, non ebbe il trionfale
successo ottenuto il 31 marzo 1841 dalla Prima
(che era stata diretta a Lipsia da Mendelssohn).
Schumann deluso la riprese in mano solo nel dicembre 1851, dopo avere composto la Sinfonia in
do maggiore (1844-45, pubblicata come n. 2) e
quella in mi bemolle maggiore “Renana” (n. 3,
1850). Indugiò a presentare nuovamente la sinfonia al pubblico: diresse la versione riveduta solo il
3 marzo 1853 a Düsseldorf, con successo. Nello
stesso 1853 la pubblicò come Sinfonia n. 4 op. 120.
Nella seconda versione aveva rifatto la strumentazione; ma, pur non modificando la sostanza della
concezione della sinfonia, anche dal punto di vista
propriamente compositivo aveva introdotto diversi ritocchi, in alcuni casi di rilievo (può incuriosire
inoltre il fatto che sostituì con indicazioni tedesche, tutte “rallentate”, le originarie indicazioni
dei tempi in lingua italiana: “Andante con moto/Allegro molto – Andante – Presto – Largo/ Allegro
vivace”). Non si limitò ad apportare correzioni
sull’autografo del 1841; ma scrisse una partitura
nuova di cui conserviamo anche un titolo poi scartato: Schumann aveva pensato a “Symphonistische Phantasie” (fantasia sinfonica) per ritornare
poi a “Sinfonia”. Il manoscritto del 1841 divenne
proprietà di Brahms, che non nascose la propria
predilezione per la prima stesura: per esempio
scrisse a Clara nel 1888 che, attraverso la rielaborazione, la partitura aveva perso qualcosa “in grazia, leggerezza e chiarezza” (si riferiva alla strumentazione, non ai ritocchi riguardanti la composizione vera e propria). Non solo da parte di
Brahms si è rimproverata alla nuova strumentazione una concezione della sonorità più grave, cupa e velata, più densa, con spessori di maggior peso. La trasparenza, la chiarezza “cameristica” della prima versione consente una percezione più
chiara e brillante dei colori dei singoli strumenti;
ma si deve anche tenere presente che la nuova
strumentazione corrisponde a una idea della sonorità orchestrale che nella sua densità è caratteristica di Schumann.
In ogni caso la Sinfonia in re minore si colloca tra
i capolavori più compiuti della straordinaria, felicissima stagione creativa che seguì immediatamente al decennio prevalentemente dedicato al
pianoforte (durante il quale peraltro il compositore si era già arrovellato intorno al “problema”
della sinfonia). Nella Prima Sinfonia aveva fatto
riferimento a una “idea poetica”, nella Sinfonia in
re minore si concentra sulla originalità della concezione in un unico blocco, dove i diversi movimenti si succedono senza interruzione, hanno una
articolazione formale ripensata in funzione di
questa continuità, e sono collegati da una rete di
rapporti motivici e di non convenzionali “riprese”, un intreccio di relazioni di cui qui si può solo
accennare.
Una misteriosa, sospesa introduzione (“Ziemlich
langsam”: piuttosto lento) conduce all’ardente
slancio del primo tema del successivo “Lebhaft”
(Vivace): è un’idea che si apre a sempre nuovi svolgimenti (con la tecnica schumanniana di dare
prosecuzioni ogni volta diverse a inizi uguali). Anche la transizione e il secondo tema possono essere visti come varianti o nuove deduzioni del primo, nel corso della breve esposizione. Solo nel seguente vasto sviluppo (lungo circa cinque volte
l’esposizione) si ascolta una nuova idea il cui intenso lirismo è l’alternativa più netta al tema principale e alle sue varianti. E prima di questa idea
cantabile si profila un tema di grande vigore ritmico che ritroveremo nel Finale. Quando lo sviluppo
si conclude e approda alla tonalità di re maggiore,
ci si aspetterebbe la ripresa, che viene omessa. Solo un accenno al primo tema ritorna nella Coda
che segna la transizione alla “Romanze”.
Questa ha la tradizionale forma tripartita, anch’essa lasciata incompiuta in funzione dell’unità
della sinfonia, al cui interno si nota qui la prima
importante “ripresa”: nella “Romanze” dopo
l’episodio iniziale, ritorna la musica
dell’introduzione lenta (quella dell’inizio della
sinfonia). Il titolo “Romanza” va forse inteso come allusione all’atmosfera di una canzone narrativa (“romanza”, dunque, in senso spagnolo), che
potrebbe essere accompagnata da uno strumento
a pizzico, qui da lontano evocato dai pizzicati degli archi dal sapore vagamente esotico. Nella sezione centrale gli arabeschi del primo violino solo
ornamentano una semplice scala: così questa sezione si collega al Trio del successivo Scherzo,
presentando lo stesso materiale. Il ritorno della
prima parte è limitato all’episodio iniziale, e dopo
l’indugio su una pausa si passa allo Scherzo.
Le prime battute dello Scherzo citano un motivo
del “Menuetto” della Prima Sinfonia in fa minore
op. 7 di Johann Wenzeslaus Kalliwoda (1801-1866), all’epoca abbastanza nota a Lipsia. Ma il
tema di Schumann si rivela anche una variante del materiale dell’introduzione lenta, irriconoscibile
nella nuova, incalzante energia. Al vigore della
prima (e della terza) sezione dello Scherzo si contrappone per due volte il carattere lieve e aereo
del Trio (di cui si è già notato il rapporto con la
sezione centrale del tempo precedente): ci aspetteremmo una forma di Scherzo in cinque parti secondo lo schema AbAbA; ma la terza ripetizione
è omessa e dal secondo Trio ci si collega direttamente all’introduzione lenta del Finale.
Il passaggio senza cesure dallo Scherzo al Finale
aveva un illustre precedente nella Quinta di
Beethoven. È questo l’unico riferimento alla
Quinta da parte di Schumann (che tra le Sinfonie
di Beethoven tenne semmai presente l’agile “leggerezza” della Quarta). In ogni caso con la Quinta
i caratteri espressivi della Sinfonia in re minore di
Schumann non hanno alcun rapporto (non si dimentichi che Brahms parlava di “grazia, leggerezza, chiarezza”): è naturale che la transizione dallo
Scherzo al Finale non abbia nulla a che vedere con
l’eroico passaggio beethoveniano dall’oscurità alla
luce, anche perché la libera e gioiosa vitalità del
Finale di Schumann è altra cosa rispetto alla tensione epico-eroica, alla volontà di affermazione luminosa e vittoriosa della Quinta.
L’introduzione lenta schumanniana al quarto
tempo si basa due idee del primo tempo, il tema
principale e quello dal marcato profilo ritmico,
che si combinano poi nel primo tema del Finale,
seguito, dopo la transizione, da un secondo tema
di giocosa spigliatezza. Il conciso sviluppo inizia
con un fugato e si conclude con il materiale della
transizione; di conseguenza la ripresa inizia con il
secondo tema. Una Coda di ampio respiro è conclusione adeguata al Finale e all’intera sinfonia.

Paolo Petazzi