Torna Iris dopo, circa un secolo, a Verona

Con Iris di Mascagni un Giappone onirico va in scena
al Teatro Filarmonico di Verona

MARZO 2012

venerdì 16 marzo, ore 20.30 Prima
domenica 18 marzo, ore 15.30
martedì 20 marzo, ore 20.30
giovedì 22 marzo, ore 20.30
domenica 25 marzo, ore 15.30

Venerdì 16 marzo alle ore 20.30 Prima dell’opera Iris di Pietro Mascagni al Teatro Filarmonico di Verona, per la regia di Federico Tiezzi e la direzione dell’orchestra areniana di Gianluca Martinenghi.
Le scene sono a firma di Pier Paolo Bisleri, i costumi di Giovanna Buzzi, la coreografia di Virgilio Sieni ripresa da Chelo Zoppi e lighting design di Gianni Pollini.

L’opera replica per 4 date: domenica 18, martedì 20, giovedì 22 e domenica 25 marzo 2012.

Iris torna al Teatro Filarmonico dopo oltre un secolo: l’opera infatti è stata rappresentata, con grande successo, al Filarmonico di Verona solo nel 1908 in occasione della Fiera di marzo, con la direzione d’orchestra dello stesso Mascagni. Dal 16 al 25 marzo 2012 sale sul podio dell’Orchestra areniana il M°
Gianluca Martinenghi, Direttore del Coro Armando Tasso, per il terzo titolo d’opera della Stagione Lirica 2011-2012 della Fondazione Arena di Verona.

La regia di Federico Tiezzi e le scene di Pier Paolo Bisleri trasportano in un Giappone onirico da fumetto manga: una rilettura contemporanea che va all’essenza dell’opera di Mascagni. Nel 1896 il compositore si fa infatti sedurre dalla proposta di un’opera ‘giapponese’ da Luigi Illica, autore del libretto di Iris. Sul finire dell’Ottocento l’Estremo Oriente sostituisce le turcherie care al Settecento e all’età rossiniana, entrando con suppellettili orientali nei salotti borghesi ed ispirando i pittori dell’Art Nouveau e della Secessione viennese. Mascagni accoglie quindi il progetto in sintonia con l’entusiasmo del suo tempo; tuttavia del Paese del Sol levante rimane ben poco nella partitura. Il Giappone raffigurato in Iris è una terra di fantasia, di sogno, ben diversa da quella autentica della Butterfly pucciniana. La vicenda inoltre presenta personaggi appena delineati, più simili a bambole o marionette, che Tiezzi ricollega ai personaggi dei fumetti giapponesi: «Il realismo si spacca e si perde in quei personaggi che, privi di un vero approfondimento musical-spirituale, divengono figure di un fumetto violentemente trash».

Il regista per la sua messa in scena lavora sull’astrazione e sull’intimità della rappresentazione: a metà tra realtà e sogno la sua Iris vive in uno stato di allucinazione in cui la vita reale non ha posto. E tutto ciò si riflette nel minimalismo simbolista della scenografia di Bisleri, al suo debutto al Filarmonico. La scena nel primo atto presenta una luminosa ambientazione di campagna, ispirata ai teatri tradizionali bunraku e kabuki, per poi diventare uno Yoshiwara, luogo della gloria, del piacere e del denaro, fatto di interni
bui e metropolitani. Un cartoon in stile anime giapponese dà corpo all’abbraccio di morte e piacere sognato con tormento dalla protagonista. Nel terzo atto la discarica fangosa priva della luce del Sole, che è l’elemento vitale ed il motore della vicenda, si popola di allucinazioni deliranti: le tre maschere
degli Egoismi. Ma al rispuntar del Sole si inscena il miracolo della metamorfosi di Iris in giaggiolo, con il palcoscenico che s’inclina verso il pubblico per mettere in evidenza il corpo della ragazza, mentre dall’alto viene calato un tulle bianco con la raffigurazione manga di Iris bambina.

Nei panni di Iris vedremo per la prima volta al Teatro Filarmonico Rachele Stanisci, accanto a Manrico Signorini nel ruolo del padre Cieco. Iris verrà rapita da Francesco Anile e Sung-Kyu Park, anche lui al suo debutto veronese, che si alternano nei panni del vecchio Osaka. Bruno de Simone sarà Kyoto,
completano il cast le nuove voci di Francesca Micarelli (Una Geisha) e Iorio Zennaro (Il Cenciaiuolo).

Giovedì 15 marzo alle ore 16.30 con soli 5 € gli Under 30 possono assistere alla prova generale di Iris al Teatro Filarmonico, preceduta in Sala Filarmonica alle ore 15.00 dalla conferenza-concerto dedicata all’opera di Pietro Mascagni, condotta dal M° Fabio Fapanni Direttore musicale di palcoscenico della
Fondazione Arena di Verona. L’iniziativa rientra nel progetto Anteprima Giovani.

Orario di apertura

dal lunedì al venerdì 9.00-12.00; 15.15–17.45; sabato 9.00–12.00; domenica chiuso.
Nei giorni di spettacolo: tutti i giorni dalle 9.00 alle 12.00; dalle 15.15 fino ad inizio spettacolo.
La domenica con spettacolo alle 15.30 l’apertura sarà alle 14.30.
I lunedì successivi agli spettacoli domenicali la biglietteria rimane chiusa.

ARGOMENTO

Atto primo

Nel giardino di casa, la giovane Iris saluta il nuovo giorno che finalmente dissipa i tristi sogni della notte, dove le sono apparsi mostri, draghi e serpenti a minacciare la sua bambola malata. La voce del vecchio padre cieco
la richiama in casa, ed ecco che nel giardino appaiono davvero due mostri che rovineranno la sua povera vita: Osaka, giovane signore vizioso e capriccioso che si è invaghito di lei e con l’aiuto di un tristo lenone, Kyoto, vuole ad ogni costo farla sua. I due uomini impiantano, sulle rive del ruscello, un piccolo teatro di marionette; le lavandaie del luogo fanno circolo, curiose ed ammirate, e anche Iris si avvicina sebbene il padre la metta in guardia da quei vagabondi. Una favola prende vita sul piccolo palcoscenico: Dhia, fanciulla tormentata da un padre tirannico e crudele, invoca la morte e viene rapita in cielo dall’affascinante Jor, figlio del Sole, al quale presta la voce Osaka in persona. Ora, mentre le musmè osservano il ballo di tre geishe che impersonano la Bellezza, la Morte e il Vampiro, e Kyoto va in giro a raccogliere le offerte, Iris viene sollevata e rapita dai saltimbanchi. Rimasto solo, invano il Cieco chiama la figlia. Alcuni venditori ambulanti lo trovano a terra,
piangente: un foglio lasciato sulla soglia di casa con del denaro, da Kyoto, spiega che Iris è andata allo Yoshiwara, il quartiere dei piaceri. Il Cieco, straziato dal dolore, supplica che lo si accompagni in città: vuole maledire la figlia che gli ha procurato tanta vergogna. Barcollante e inebetito il vecchio si avvia.

Atto secondo

Iris, ancora priva di sensi, è nella casa di Kyoto, luogo di piacere e di perdizione. Osaka ammira la bellezza della fanciulla e pregusta con Kyoto l’ebbrezza della conquista. Svegliatasi in quel luogo sconosciuto, pieno di un lusso a lei ignoto, Iris crede di esser morta e di trovarsi in Paradiso. Tenta di suonare il sàmisen e suoni discordanti escono dallo strumento; cerca di dipingere e solo orribili sgorbi vengono fuori dal suo pennello. Essa piange
allora, pensando alla sua casa, ai suoi giochi, al vecchio padre di cui era sostegno e conforto. Ed ecco Osaka, bello, elegantissimo, che le si presenta per sedurla: Iris riconosce la voce del pupazzo Jor e, intimorita, lo chiama figlio
del Sole. Osaka, con una risata, tenta argomenti più terreni e convincenti. Ma né vesti ricche né gioielli preziosi attraggono la ragazza, che crede di ravvisare con spavento in Osaka – che ha detto di essere il Piacere – la terribile piovra di un vecchio racconto della sua infanzia. Il bacio appassionato del giovane la fa prorompere in un dirotto pianto: Iris chiede disperatamente la sua casa, i suoi fiori, suo padre! Osaka, annoiato, rinuncia all’avventura ed autorizza Kyoto ad esporre la fanciulla al pubblico della strada. Kyoto le fa indossare una veste trasparente che mostri tutta la sua bellezza e, sempre minacciando di gettarla in un precipizio di cui le fa vedere la profondità, la espone – dall’alto di una veranda – alla folla che anima, piena di desiderio e di cupidigia, le strade dello Yoshiwara.
Fra la gente che si accalca per ammirare Iris è ancora Osaka che, ripreso dalla sua brama di possesso, si arrampica sulla veranda invocandone il nome. Ma un urlo inumano fa eco alla sua voce: è il Cieco, il vecchio padre di Iris, che, condotto sotto la finestra alla quale sta esposta la figlia e da lei chiamato con speranza e con gioia, raccoglie manciate di fango e le scaglia contro Iris maledicendola. Colpita nel volto da quel fango che essa non meritava, Iris
lancia un grido disperato e si precipita nel baratro, che Kyoto poco prima le ha mostrato. Mentre Osaka manda un urlo di terrore, il Cieco continua a scagliare inconsciamente fango e maledizioni.

Atto terzo

Nel fondo dell’abisso Iris muore, uccisa dai desideri e dall’egoismo degli uomini. Turpi cenciaiuoli frugano il suo corpo per rubare vesti e gioielli, e fuggono quando essa dà deboli segni di vita. Alla sua domanda desolata –
«Perché?» – voci strane e beffarde paiono risponderle da lontano: l’egoismo di Osaka, che ha pensato solo al suo piacere, quello di Kyoto, che ha mirato unicamente all’interesse, e infine l’egoismo del padre, per il quale la perdita di Iris si risolve, in definitiva, nella mancanza di un sostegno. Iris muore nell’orrore, in una disperazione senza nome, quando – dall’alto dell’abisso a poco a poco, e sempre più viva e fulgida – la luce del Sole nascente giunge a confortarla. Il sole inonda il baratro orrendo, illuminando il piccolo corpo intorno al quale spuntano nubi di fiori. Iris, così, è accompagnata in cielo da una pietosa e trionfante visione di luci e di armonie.

Iris, Ofelia e il fumetto Manga

di Federico Tiezzi

Si legge questo libretto di Illica come un fumetto manga: storia efferata e larmoyante di una fanciulla rapita, durante una rappresentazione di bunraku, da una coppia di giovanotti gaudenti e cinici, come quelli di Arancia meccanica di Stanley Kubrick.

Uno, Osaka, è ricco e capriccioso, impazzito di desiderio; l’altro, Kyoto, tenutario di una casa di piacere nello Yoshiwara, falsario di vite, sarà l’abile regista del suo rapimento. Esposta nel quartiere a luci rosse di Tokyo la fanciulla si getta, per la vergogna, in una discarica. Dove muore, semidivina, trasformandosi in fiore. In iris, appunto.

Si affacciò il Giappone al mondo occidentale, verso la fine dell’Ottocento, sostituendo con musmè e geishe i turchi, le turche e le turcherie cari a Mozart e a Rossini. Arrivano i rami coperti di fiori di pesco (van Gogh si innamorerà di quelle fioriture rade), e i kimono (anche Odette de Crecy nella Recherche di Proust ne ha uno – quasi Monet). Arrivano i paraventi, le lacche, le spade imperiali e l’orgoglio dello harakiri. Quel mondo esotico conquista molti artisti che traggono dall’oriente estremissimo suggestioni di colori, di parole, di suoni.

Ma il Giappone di Iris non è quello “vero” di Puccini in Madama Butterfly, opera rigurgitante di scale esatonali, di spunti e temi originali di quel paese, di suoni “autentici”.

È, il Giappone di Mascagni, una terra di fiaba e di sogno, lo sfondo esotico di una storiaccia di rapimento e avvio alla prostituzione che sembra tratta dalle cronache umbertine dell’epoca. Certo Mascagni ricerca, per la nuova partitura, ritmi e suoni e voci e strumenti giapponesi, studia la scala esatonale ma
il risultato è più fantastico e meno “autentico” di quello raggiunto da Puccini. In questo Giappone tutto è simbolico alla Maeterlink (i personaggi e i loro nomi, i luoghi, le azioni) soffocante come nei romanzi di Huysmans, sensuale come in un quadro di Knopff o Redon.

E la storia, soprattutto, pare tratta da un racconto della “scapigliatura” milanese. Poco o niente realismo: la storia cupa e affascinante, piena di umori malati, è immersa in un profumo di “décadence” (tutti quei wagnerismi…) e in impressioni sonore quasi alla Debussy.

I due bellissimi cori al-del Sole (cioè alla-della Luce) possono, nella loro ampia orchestrazione, trarre in inganno: Iris però non è opera magniloquente ma di intensità orchestrale quasi cameristica (penso al malinconico canto di Osaka-Jor, a Dhia lacrimosa, alle lavandaie, che arrivano su una scansione di
bolero, alla danza delle geishe da “interno” di casa) e come tale va impostata nella regia, lavorando sull’astrazione, e sull’intimità della rappresentazione.

Il realismo si spacca e si sperde in quei personaggi che privi di un vero approfondimento musical-spirituale divengono figure di un fumetto violentemente trash: e il trattamento scenico, drammatico, quasi sadico, che viene inflitto a Iris, ci riporta alla mente la figura di Ofelia nell’Amleto di Shakespeare.

Come Ofelia Iris è funzione di menti e decisioni maschili; come Ofelia non riesce a distinguere tra realtà e immaginazione (penso all’identificazione che in lei avviene tra Osaka e Jor, il figlio del sole); come Ofelia preferirà impazzire prima che diventare adulta.

Protagonista assoluto il Sole cioè la luce che si oppone al buio nel quale è immersa la coscienza di Iris, nella sua educazione da fanciulla a donna. Sempre naufraga nel sonno e nel sogno (i tre atti si aprono in maniera simmetrica con l’eroina che si risveglia) Iris vive in uno stato di allucinazione, di visione,
nel quale, ancora come per l’Ofelia di Shakespeare, la vita reale non ha posto. Quando, esposta nello Yoshiwara, dopo che Osaka, maltrattandola e adorandola feticisticamente l’ha esortata a “imparare la vita”, si trova a contatto, finalmente, con la vita appunto, sceglierà di morire gettandosi nel buio di un baratro, che incredibilmente si trova sotto la finestra di questo bordello, hotel di piacere sospeso sull’abisso.

È sul ripetersi della parola perché, sul dubbio, che si scatena l’ultima, simbolica luce del sole (che spazzando via definitivamente la tenebra acquista origine e rilevanza di ragione che tutto illumina).

Si conclude il viaggio della bella Iris, che abbiamo seguito fino al termine della notte, nella notte oscura del suo delirio incosciente, nei sogni e nei risvegli, nei giochi del teatro e nelle paure, nei timori.
L’abbiamo amata nell’aria della piovra, dalla sillabazione stretta, ansiosa, da rap impaurito, che ha virato l’eroina ancora verso il fumetto, addirittura il cartoon (e un vero cartoon manga commenta l’aria).

Ho diviso, nella mia regia, l’opera in due parti, che stanno a fronte come i volets di un dittico.

Campagna natura luce e l’arte del teatro bunraku (l’antico teatro giapponese delle marionette mosse “a vista” da bravissimi maestri) sono stati gli elementi che nel primo atto mi hanno parlato di un Giappone immerso nella tradizione, fuori dai grandi centri metropolitani, quello dei film di Mizoguchi o di Ozu.
Quello del teatro kabuki. E alla messinscena kabuki mi sono ispirato per il primo atto, nei movimenti, nei costumi, nelle danze: è lo splendore dell’arte del Teatro, del resto, a sedurre Iris, a rapirla.

L’altro volet l’ho immaginato proprio «nel cuore affannoso della città gaudente ove più accelerato batte il palpito delle esistenze nelle diverse febbri che agitano le genti – quella della gloria, quella del piacere, quella del denaro» come recita in modo “scapigliato” la didascalia ad apertura d’atto.

Siamo nel Yoshiwara, luogo lost come il paradiso, pieno di desiderio (da quel luogo arrivarono all’occidente della fine secolo straordinarie foto di donne nude, una soft pornography che ispirò quei bellissimi pittori impressionisti o fauves). Nella luce verde delle Case Verdi del libretto ho ambientato il tentativo di seduzione di Iris da parte di Osaka, la sua esposizione agli occhi curiosi della folla – che nel mio spettacolo avviene in un bar di lap dance, il bunraku moderno, dove le ballerine hanno davanti un coro di “drughi” da Arancia Meccanica. Ho immaginato una città solo di interni, nel buio, nell’assenza di natura.

In una scena che riduce sé stessa a spazio, a empty room di coordinate geometriche, ad ambiente pittorico, i costumi, divengono scenografia in movimento, secondo i dettami dell’arte teatrale orientale.

Si arriva a quel magnifico terzo atto che si svolge in una discarica dove cenciaioli così vicini ai personaggi di Samuel Beckett, in una assoluta premonizione del Wozzeck espressionista di Berg, cantano alla luna mentre con l’uncino frugano nella sterpaglia e nel fango.

Dentro il fango, simbolo di ottenebramento, di assenza di luce, scoprono il corpo agonizzante di una fanciulla che non è mai voluta divenire donna, che guarda il cielo e si chiede forse cosa sono le nuvole cos’è la luna. Poi evoca e ascolta, in una allucinazione delirante, i fantasmi che l’hanno ossessionata,
al pari dell’Ofelia shakespeariana, lassù nella vita, mai serena, forse si un tempo, ora trasformati in moralità in veste di Egoismi.

Ma eccoti, Sole, a spazzare via la notte e le angosce, a darti in luce quasi di Ragione.

Ora avviene il miracolo della metamorfosi, quel giovane corpo si santifica trasformandosi nel fiore del titolo e tornando giaggiolo, come lo si chiama ancora, nel Chianti, tra Greve e San Polo, dove vivo.

L’Iris manga di Federico Tiezzi al Filarmonico

Lo scenografo Pier Paolo Bisleri illustra l’allestimento

di Giulia Covelli

Introduciamo Iris, uno spettacolo che ha avuto molto successo?

Iris è un’opera di Mascagni considerata minore rispetto a Cavalleria Rusticana e quindi poco rappresentata. Nella nostra messa in scena ha avuto un ottimo successo, una delle eredi di Mascagni, che venne alla prima di Livorno, ne rimase entusiasta, condividendo le nostre scelte di allestimento che
ne palesavano l’attualità. Lo stesso direttore, il Maestro Nello Santi, dopo aver assistito alla prima messa in scena, insistette per dirigerne la rappresentazione di Trieste. Come Butterfly e Turandot è un’opera ambientata nell’estremo oriente.

Con quale sguardo Lei e Tiezzi avete affrontato Iris rispetto a Madama Butterfly che avete portato in scena dieci anni prima?

Certamente sono due opere molto diverse tra loro. Butterfly è un opera molto amata da Federico. Il percorso drammaturgico che si dipana dall’incontro tra Butterfly e Pinkerton sino al suicidio della nostra protagonista suggerisce innumerevoli analisi tra il rapporto non solo uomo/donna ma anche oriente/
occidente, con tutto ciò che ne comporta. L’opera diviene spunto per una profonda riflessione non solo sulla musica, che segue con grande fascino il percorso drammaturgico della storia, ma su tutto ciò che la storia stessa propone. Iris narra la storia di una donna/bambina e di tutti i tradimenti che i tre personaggi maschili che la circondano le fanno subire. È la storia della “purezza” di una ragazza che per l’onore e la sua fragilità preferisce morire all’idea del degrado morale, rinascendo in un fiore, per l’appunto l’iris dopo il pentimento di chi l’ha così profondamente tradita. Una storia adolescenziale …
quasi un cartoon e allora perché non un manga?

Parliamo della costruzione dello spazio scenico…

L’opera ha inizio in uno spazio vuoto dove la discesa di un gigantesco sole bianco è diretta da un operaio-macchinista; altri operai popolano all’inizio la scena: sono i coristi per “L’inno al Sole”, uno dei massimi pezzi musicali di Mascagni. Nel momento in cui il coro esce in quinta Iris é addormentata vicino al suo giardino che ho allestito in maniera minimalista, con un gruppo di iris coloratissimi disposti con rigore matematico su di un quadrato di colore verde abbacinante, una panca nera e una serie di passerelle (chiaro riferimento agli Hanamici del teatro kabuki e già utilizzati per l’ingresso di Madama Butterfly).
Iris non ha una bambolina, così come vuole la partitura originale, ma un pupazzo manga dalla serie di Dragon Ball. Tutta l’opera ha un’ambientazione giapponese in stile manga ed è trasposta al giorno d’oggi. Le passerelle si spostano a vista su ruote, gli operai montano una parte del palco, e dal fondo avanza il teatrino bunraku. Il carro che porta il palco del bunraku ospita due mimi che fanno l’alter-ego dei personaggi in scena. Dall’alto scendono, a comporre lo spazio scenico, il “grande pino giapponese” tipico del kabuki, qui di un blu iridescente, ed un tulle con ideogrammi giapponesi (l’editto della nascita del teatro bunraku). Iris assiste ad una rappresentazione di marionette e, distratta dallo spettacolo e colta di sorpresa, viene rapita per volere di Osaka e di Kyoto. Al rapimento concorre la chiusura di un sipario kabuki a strisce bianche e blu. Il padre cieco cerca la figlia e, accorgendosi di essere rimasto solo, cade nella disperazione. Il secondo atto si apre all’interno di uno yoshiwara, il bordello giapponese: Iris non si è concessa al ricco Osaka ed egli la vende a Kyoto perché diventi una prostituta. Iris viene istruita alla musica e alla pittura, arti caratteristiche delle geishe. Nel secondo atto Iris dà voce ad un incubo che la tormenta: un polipo con i suoi tentacoli s’impossessa di lei fino a farla soffocare. Su questo “abbraccio” di morte e di piacere mi sono interrogato a lungo e feci una scoperta che, a mio avviso, sarebbe diventata molto significativa: negli anni in cui Mascagni scriveva Iris a Livorno, a Genova fu presentata una mostra di stampe giapponesi erotiche. Fu probabilmente esposta in quell’occasione una stampa di cui recuperai l’immagine che rappresenta un polipo che stringe con i suoi tentacoli una donna il cui viso esprime puro godimento sessuale. Non ho certezze ma credo che Mascagni abbia visto quella stampa e che, rimastone suggestionato, l’abbia descritta in questo incubo di amplesso erotico, cantato, tra l’altro, nella scena dello yoshiwara. Abbiamo pensato di descrivere questo sogno attraverso un cartone animato di stile manga (come in Kill Bill I di Quentin Tarantino quando la violenza del ricordo dell’uccisione del padre è rivissuto dalla bambina attraverso un cartoon). Le tavole grafiche, una volta realizzate, furono trasformate in un cartone animato stile anni ’50 insieme al video-maker Antonio Giacomin. Iris viene preparata perché si esibisca nella vetrina dello yoshiwara: si spalancano due ampie pareti con delle rose coloratissime dal gusto volutamente kitch e dal fondo avanza un carro illuminato da tubi al neon sul quale due ballerine danzano la lap dance. Iris viene forzata ad esibirsi sul bancone. Il padre giunge e maledice la figlia che, presa dalla disperazione, si uccide lanciandosi nel vuoto. Nel terzo atto il corpo di Iris si trova in una discarica dove gli ambulanti stanno cercando qualcosa da poter vendere. Al muoversi della giovane, questi scappano. Prima di morire la fanciulla vede le immagini dei tre uomini (il Padre, Osaka e Kyoto) responsabili della sua fine, rappresentati come maschere del teatro kabuki. Attraverso il pentimento di questi tre personaggi il mito narra che ella si sia trasformata in fiore.
Nell’atmosfera candida della scena seguente quattro scultorei alberi di pesco dominano il palco: mi sono tornati alla mente i finali di due film: The cell diretto da Tarsem Singh e L’ultimo samurai (The Last Samurai) di Edward Zwick. Due personaggi bizzarri piantano a terra degli iris. La giovane, vestita con un kimono dai colori del fiore cade morta, ma risorgerà nei fiori che ora portano il suo nome. Nella scena finale dell’opera, come in Madama Butterfly, il grande palco bianco s’inclina verso il pubblico mettendo in evidenza il corpo di Iris mentre dall’alto scende un tulle bianco con la raffigurazione manga di Iris
bambina.