3a volta a La Fenice della Clemenza

La clemenza di Tito di Wolfgang Amadeus Mozart

Venerdì 24 gennaio 2014 alle ore 19.00 (turno A) andrà in scena al Teatro La Fenice La clemenza di Tito, dramma serio per musica di Wolfgang Amadeus Mozart composto insieme alla Zauberflöte nell’ultimo anno di vita del compositore e andato in scena per la prima volta il 6 settembre 1791 al Teatro Nazionale di Praga. Scritta su un libretto di Caterino Mazzolà tratto dall’omonimo dramma per musica di Pietro Metastasio (1734), l’opera fu commissionata a Mozart nell’ambito dei festeggiamenti per l’incoronazione di Leopoldo II d’Asburgo a re di Boemia, paragonato all’imperatore romano Tito di cui il libretto celebrava la leggendaria clemenza.
Proposta finora solo due volte al Teatro La Fenice (nel 1973 in forma di concerto e nel 1986 con il memorabile impianto scenico ‘obliquo’ di Pier Luigi Pizzi), La clemenza di Tito andrà in scena nel celebre allestimento dei coniugi Ursel e Karl Ernst Herrmann che, contestato in passato, può essere oggi considerato come un grande classico del teatro di regia novecentesco. Presentata per la prima volta nel giugno 1982 al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, riproposta nel 1992 al Festival di Salisburgo, nel 2000 al Covent Garden di Londra e nel 2005 all’Opéra di Parigi, la lettura dei due registi tedeschi del capolavoro mozartiano è stata oggetto nel febbraio 2012 di una nuova produzione del Teatro Real di Madrid, che viene ora presentata a Venezia come allestimento ospite. Lo stesso Karl-Ernst Herrmann ne firma scene, costumi e luci, mentre Joël Lauwers coadiuva la coppia come regista collaboratore.
La direzione musicale è affidata a Ottavio Dantone, che dirigerà l’Orchestra e il Coro del Teatro La Fenice (maestro del coro Claudio Marino Moretti) e un cast di specialisti mozartiani formato dal tenore Carlo Allemano nel ruolo dell’imperatore Tito, dal soprano Carmela Remigio e dal mezzosoprano Monica Bacelli in quelli rispettivamente di Vitellia e di Sesto, dai soprani Julie Mathevet e Raffaella Milanesi in quelli di Servilia e di Annio, e dal basso Luca Dall’Amico in quello di Publio. Maestro al cembalo Roberta Ferrari, sopratitoli in italiano e in inglese.
La prima di venerdì 24 gennaio 2014, trasmessa in diretta su Rai Radio3, sarà seguita da quattro repliche, domenica 26 (turno B) alle 15.30, martedì 28 (turno D) e giovedì 30 (turno E) alle 19.00, e sabato 1 febbraio (turno C) alle 15.30. La pomeridiana di domenica 26 febbraio rientra nell’iniziativa «La Fenice per la città», riservata ai residenti nel comune di Venezia e organizzata in collaborazione con le Municipalità.

I ventisei drammi per musica di Pietro Metastasio, da Didone abbandonata (1724) al Ruggiero o vero l’eroica gratitudine (1771), sono senza dubbio le colonne portanti del teatro d’opera italiano nel Settecento, con centinaia di intonazioni fino a Ottocento inoltrato. Eppure, quando nel 1791 Mozart e il librettista Caterino Mazzolà mettono mano alla Clemenza di Tito (1734), il compositore scrive nel proprio catalogo personale che il dramma del Metastasio era stato «ridotto a vera opera», come se il testo del grande poeta morto nove anni prima non fosse un dramma perfetto per i canoni dell’epoca.
In effetti, nei quasi sessant’anni che separano la première della Clemenza di Tito dall’intonazione mozartiana il teatro d’opera era cambiato molto. I drammi del Metastasio erano ancora considerati testi capitali per la celebrazione del potere illuminato e per l’educazione civica e sentimentale degli spettatori, ma il mutamento dei gusti in materia musicale (arie più lunghe e con una maggiore ‘presenza’ orchestrale, per citare la differenza più appariscente) rendeva i vecchi drammi metastasiani piuttosto ingombranti per una messa in scena ‘alla moderna’ che restasse contenuta nella canonica durata di tre ore. Mozart e Mazzolà dovettero di conseguenza mettere in opera un ampio repertorio di tecniche e pratiche consolidatesi nell’ultimo trentennio del Settecento allorché si voleva portare a nuova vita drammi eccelsi nella fattura poetica, intriganti quanto mai nell’intreccio delle vicende narrate, ma ormai pressoché ingestibili dal punto di vista della forma musicale. L’essenza degli interventi di Mozart e del suo librettista consistette nel condensare il dramma da tre a due atti, redistribuire di conseguenza gli snodi salienti della vicenda, dare una buona sforbiciata ai recitativi e una sostanziosa potatura al corredo delle arie, tagliate del tutto o rifuse per essere trasformate in pezzi d’assieme. Di ensemble, La clemenza di Tito mozartiana ne conta ben otto, quasi un terzo dei numeri in partitura, comprensivi dei due finali d’atto tra cui spicca il quintetto con coro «Deh conservate, o dei» (finale primo): un brano che, nella sua apparente semplicità e con i suoi chiari riferimenti gluckiani, è un capolavoro di psicologia dell’ascolto basato su una sequela di detti e non detti dei personaggi in scena, con il coro sullo sfondo che rende più concitate le scene della congiura ai danni di Tito. Nella Clemenza vi sono poi due arie in forma di rondò, entrambe nei punti salienti della vicenda: «Deh per questo istante solo» segue il drammatico confronto tra Tito e l’amico Sesto, ormai reo confesso dell’attentato all’imperatore; in «Non più di fiori», l’ultimo brano solistico dell’opera, Vitellia manifesta i propri rimorsi per l’imminente morte di Sesto, affidandosi anche alla ‘voce’ strumentale del corno di bassetto, amatissimo da Mozart negli ultimi anni di vita.
Ultimo titolo del catalogo operistico mozartiano, andato in scena al Teatro Nazionale di Praga il 6 settembre 1791 per celebrare l’incoronazione di Leopoldo ii d’Asburgo a re di Ungheria e Boemia, La clemenza di Tito ha goduto fin dall’esordio di alterne fortune. Accolta alla première con sostanziale freddezza da parte di pubblico e critica, l’opera riscosse un successo crescente nei primi decenni dell’Ottocento divenendo – con Don Giovanni e Die Zauberflöte – uno dei lavori più popolari del suo autore, prima di scomparire bruscamente dalle scene dalla metà del secolo sulla scorta di pregiudizi idealistico-romantici che la accantonarono come pezzo celebrativo poco ispirato, indegno di confronto con la Zauberflöte, «ceppo della tradizione operistica romantico-tedesca». Per una piena rivalutazione critica dell’opera si sono dovuti attendere gli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso quando una serie di memorabili incisioni discografiche – Kertész, Colin Davis, Gardiner, Hogwood, Harnoncourt – favorì la decisiva riappropriazione di un capolavoro ingiustamente trascurato, geniale e personalissima rivisitazione del glorioso genere dell’opera seria metastasiana settecentesca, anch’esso a suo modo premessa del rinnovamento formale e di contenuto del secolo successivo