Pupilla si fa in 3 per Ravenna Festival

Pupilla  si fa in tre per Ravenna Festival Martedì 10 giugno ore 21 al Teatro Rasi lo spettacolo di Valeria Magli Mettiamo in moto la memoria: è l’invito del Progetto RIC.CI – Reconstruction Italian Contemporary Choreography anni Ottanta-Novanta che punta a dare risalto e a (ri)mettere in moto la memoria della danza contemporanea italiana degli anni 80 sino ai 90 riproponendo al pubblico le più significative e importanti coreografie della nostra tradizione del nuovo, affidate all’interpretazione di giovani danzatori che ne mantengono ancor oggi viva la sorprendente freschezza. Proseguendo il percorso avviato l’anno scorso, il Festival 2014, presenta al Teatro Rasi altre due tappe del progetto ideato e diretto da Marinella Guatterini: martedì 10 giugno (ore 21) Pupilla di Valeria Magli e giovedì 12 giugno (sempre alle 21) Terramara di Michele Abbondanza. Negli anni Ottanta Valeria Magli fu definita la “musa dei poeti” e soprattutto la performer della “poesia ballerina”. Una artista fuori del coro, e anche una intelligente funambola sempre in bilico fra teatro e danza. Da sola ha fatto scuola, con il suo carisma leggero, il suo fascino ipnotico, ma non ha creato epigoni, né seguaci. L’idée fixe, caparbiamente sostenuta sino al recente Soirée Sotis, di unire parole, musiche, oggetti e movimenti senza un codice preciso ma dettati dalla sua fantasia e dalla sua speciale capacità di unire acting, ginnastica ritmica, e balli di sala, è rimasta tutta sua, salvo poi diramarsi con altri teatranti e/o eografi in mille rivoli forse più ortodossi a ciò che si pensa siano la danza e il teatro o il teatrodanza. Per questo l’inafferrabile Valeria Magli rientra nel progetto RIC.CI come un unicum nella memoria della nostra tradizione del nuovo. E ci entra non in punta di piedi, bensì di scarpette da bambola-bambina con il trio Pupilla. Pupilla, presentato per la prima volta nel 1983 al Teatro Pier Lombardo di Milano in forma di assolo (ma già all’epoca era stato concepito per più interpreti), oggi è affidato a tre danzatrici della DanceHaus Company: Chiara Monteverde, Armida Pieretti e Susan Vettori. Maschere, manichino e bambola sono quelle originali del 1983, realizzate da Guerrino Lovato e Brigitte Starczewski Deval. Le musiche sono di Claude Debussy, Gabriel Fauré, Juan Hidalgo, Ethelbert Nevin e C. J. Orth; le poesie di Hugo Ball, Milli Graffi, Letizia Paolozzi, Giovanni Pascoli, Gisèle Prassinos e Umberto Saba. Dopo una serata di festa ­ annotava Valeria Magli nel 1983 – nel salone ormai vuoto una donna si guarda allo specchio, e lo specchio le rimanda l¹immagine del suo stato d’animo contrastante: allegria e malinconia insieme. L’immagine allora si materializza nelle maschere e la memoria ha il sopravvento e fa il suo gioco. La donna si rivede bambina e con lei appare la bambola, compagna silenziosa dei divertimenti della piccola padrona. Il mondo della casa, dei rapporti con la sorella, con i grandi, lo stesso diventare grande. La bambola rimanda al mondo dell’infanzia con i giochi teneri e le cantilene, ma anche con i suoi misteri e le sue perversioni. Il corpo in scena fa vivere delle immagini: si parte da quella della Contessa de Beaumont, fotografata da Man Ray, vestita per una di quelle feste che lei e suo marito organizzavano spesso sul finire degli anni Venti del Novecento. La Contessa, ora sognante, ora pensierosa come le due maschere in cui si rispecchia (ed è anche una citazione da Oscar Wilde) rivive come in un flash l’estasi ancora ardente della festa cui ha partecipato, e la nevrosi della sua fine. In un lampo, molto femminile, rilegge la propria vita intera. Tornare bambina (anzi moltiplicata in tre bambine, nel quadro successivo) è ugualmente agrodolce: lo dice la musica tagliente e metallica di Tamaran di Juan Hidalgo (grande amico di John Cage). Ma c’è ­ spiega Marinella Guatterini – il cullante Gustav Fauré della Dolly Suite. op 56 a ridestare il mondo dell’innocenza abbinato però a La tovaglia di Giovanni Pascoli, una poesia poco nota, dedicata a una piccina e ai buoni morti. La bambola è diventata un giocattolo, ma nasce, nei culti antichi, come oggetto funebre, legato alla vita dei defunti nell’aldilà. Danza e poesia, appunto, che si snodano nei successivi quadri (Signora – Le Bambine – Femme machine/ Max Ernst – Die Puppe/Hans Bellmer – Girotondo), fino ad arrivare ad ambigue donne-robot: Da questo giocattolo speciale scriveva sempre nel 1983 Magli – che imita la vita senza raggiungerla, si passa alla vita che imita la finzione. Ecco allora una sorta di Frankenstein al femminile, agito da piastre e pile, l’immagine di Max Ernst di una donna-macchina che qui prende vita solo per la durata della sua carica. Per arrivare al girotondo finale che riparte dall’inizio. Lo specchio inesistente, se non nella musica, si è ormai rotto: meglio attraversarlo come fa l’ormai qui triplicata Alice con palpitanti corpi addormentati, caldi e ben vivi. Ora la vita appare con tutte le proprie forme, lo schermo (nel 1983 era uno specchio) si rompe e così arte e immaginario possono offrire gaiamente la molteplicità del vivere.